domenica 30 maggio 2010

Un vero uomo

“«[...] Tua madre ha sofferto molto in quella piazza: è una donna fiera, ma è pur sempre una donna» disse Aristarchos abbassando lo sguardo.
«Oh, padre, sai bene che un guerriero non può certo tenere conto di queste cose.»
«Sì, figliolo, questo è quello che comunemente si ritiene, ma ricorda che un vero guerriero è un vero uomo e un vero uomo ha membra salde, mente pronta e anche cuore: senza una di queste cose l’armatura che ti ricopre non è altro che un guscio vuoto.»”

(Valerio Manfredi, Lo scudo di Talos)

venerdì 28 maggio 2010

“Come un canto, come l’arte più grande...”

“Chiusi la porta e guardai la busta. Veniva dall’ufficio del Rebbe.
Mi avvicinai alla scrivania, aprii la busta e ne tolsi la lettera. Era scritta a mano. La calligrafia - yiddish e ebraico in inchiostro nero, un po’ tremolante ma chiara e marcata - attraversava in pendenza il foglio color crema della carta da lettera personale del Rebbe. In alto a destra, la data in ebraico e l’indicazione della lettura settimanale della Torah. E poi il corpo della lettera:

Al mio caro Asher Lev i miei saluti e la mia benedizione:
Tuo padre, possa egli vivere a lungo in salute, ti porterà questa lettera con l’aiuto di Hashem, sia benedetto.
Tu e la tua famiglia occupate molto spesso la mia mente e il mio cuore. Mi vedo davanti agli occhi il tuo volto pallido e stanco e so che cosa sopporta un artista dentro di sé per quanto il suo comportamento sia allegro e alta la sua risata. E tu, caro Asher, sopporti non solo i tormenti della tua arte ma anche il peso delle tue responsabilità verso i ladover. Ti abbiamo ferito, eppure sei legato a noi. «Dovesse anche uccidermi, avrò fede il Lui».
Tutti i saggi sanno che esistono mondi e sfere infinite, e su ogni sfera diecimila creature celesti, esseri senza fine, senza numero, tutti emanati dall’unico atto di creazione. La bocca non può esprimerlo, la mente non può afferrarlo. E tra gli stessi esseri celesti vi sono gradi e categorie senza fine, sempre più alti - e tutti posseggono la saggezza, e tutti riconoscono il loro Creatore. Ma il nostro piccolo mondo, il nostro mondo che soffre, così vicino alla più bassa delle sfere e con la sua mescolanza di bene e male a causa del peccato di Adamo ed Eva - come può il nostro mondo continuare a esistere? Che cosa crea l’armonia tra il mondo superiore e quello inferiore? Questo, mio Asher, è forse l’enigma più difficile.
Asher Lev, i maestri ci dicono che questa armonia è la creazione speciale di individui che si impegnano in certe azioni per amore di quelle stesse azioni. Tali azioni si levano come un canto, come l’arte più grande, a tutte le sfere. E quando gli esseri celesti odono questo canto, accettano gioiosamente il giogo del Regno dei Cieli, ed esclamano all’unisono: Santo! Santo! Santo! - e vi è pace in tutto il creato, pace in tutto Israele, e inizia la fine dell’esilio.
Asher Lev, in nome di mio padre e del padre di mio padre prima di lui, in nome dei santi Rebbe che parlano e agiscono mio tramite ti do la mia benedizione perché tu abbia saggezza e forza.
Possa la redenzione finale giungere presto alle genti di Israele e a tutto il mondo. Amen.

La sua firma.
Rimango seduto nel silenzio della stanzetta, con la luce fioca e l’aria stagnante, e rileggo la lettera. Che cosa crea l’armonia tra il mondo superiore e quello inferiore? ... azioni per amore di quelle stesse azioni ... si levano come un canto, come l’arte più grande...

(Chaim Potok, Il dono di Asher Lev)

lunedì 24 maggio 2010

Un varco tra le nubi

“Nel pieno della bufera si dimentica che esiste il sole e si teme che le tenebre domineranno il mondo ma il sole continua a splendere sopra le nubi nere e prima o poi i suoi raggi si aprono un varco per riportare la luce e la vita.”
(Valerio Manfredi, Lo scudo di Talos)

sabato 22 maggio 2010

L'opera delle tue mani

“Mio caro Asher,
se tieni tra le mani questa lettera, allora sono accadute due cose.
Io sono andato al Vero Mondo e tu hai acconsentito ad assumerti la responsabilità per il futuro della mia collezione d’arte. Il Padrone dell’Universo, nella Sua infinita saggezza, mi ha chiamato a Sé e io accetto il Suo giudizio con fede e umiltà.
Ho chiesto che tu assuma la responsabilità di amministrare la mia collezione d’arte perché non mi fido che lo facciano i miei figli. Non sono cattivi figli, ma non capiscono il vero valore di una collezione simile. Al contrario tu, mio Asher, saprai che cosa farne. Tu sai che tanta bellezza, sebbene nata dall’anima e dalla mente dei gentili, può servire a esaltare il nome e la presenza del Padrone dell’Universo. Sin da quando ti ho fatto visita nel tuo appartamento di Parigi e nella tua casa nel sud della Francia, dove ho visto la tua collezione d’arte appesa alle pareti, sono vissuto nella speranza che forse non esistano due regni, il mondo sacro di Dio e il mondo profano dell’arte dei gentili, ma che anche la grande arte possa esistere per amore del cielo. E’ mio desiderio, nipote mio, che nell’occuparti di queste opere d’arte tu abbia sempre presente il Padrone dell’Universo. Possano queste opere trasformarsi nell’«opera delle Mie mani, a Mia gloria». Mio Asher, ti ringrazio per tutti gli anni in cui ho avuto la benedizione di poter contemplare gioiosamente l’opera delle mani umane. Ti auguro le più grandi creazioni di Dio, la saggezza e il buon cuore, dal momento che ti occupi delle più belle creazioni dell’uomo. [...]. Tuo zio, che ti vuole bene e ha sempre ammirato e amato l’opera delle tue mani.”
(Chaim Potok, Il dono di Asher Lev)

venerdì 21 maggio 2010

La fortuna di avere amici veri

“[...]
ma tu sei al mio fianco
il mondo intorno a me è confuso
ma con la fede tua ritroverò la mia.
[...]
Siamo tu ed io nella notte
è questione di fortuna se
la vita ha dato a me
un caro amico come te.”

(Sting & David Hartley, Un caro amico come te - Soundtrack Italiano
,
dal film d'animazione Le follie dell'imperatore)

giovedì 13 maggio 2010

martedì 11 maggio 2010

Sei Tu davvero?



“SINDONE
Nel silenzio ti senti chiedere:

«Voi chi dite che io sia?»

Fuori è una giornata di primavera radiosa: un sole chiaro illumina in trasparenza le foglie degli alberi appena nate, color verde acerbo. Dentro il Duomo, è buio. Una penombra fitta accoglie il visitatore ancora frastornato dal primo caldo, e dal vociare della folla in piazza. Una penombra raccolta come un ventre materno, un altro mondo – silenzioso, tanto quanto fuori è rumore.

La sola luce è in fondo, al centro della navata. La sola luce è un grande rettangolo di colore oro pallido. La Sindone, eccola, a pochi metri da te. Dietro allo spesso cristallo a prova di ogni urto, di ogni fiamma, protetta come meglio la tecnologia degli uomini oggi può fare, come il più prezioso dei tesori. Ecco l’orma di quel corpo, e il volto, e le macchie più scure: il sangue. Zittisce per un momento la folla dei giornalisti e fotografi portati per primi in Duomo – zittisce come quando ci si trova davanti a qualcuno, e non a qualcosa. Poi, quasi subito, il mestiere riprende il sopravvento, gli operatori lottano per piazzare i cavalletti delle telecamere, i fotografi alzano sopra la testa le macchine e una raffica di flash illumina di bagliori le navate, come lampi in un temporale. C’è chi parla, chi registra e chi ricorda ai telespettatori che l’ingresso è gratis; chi telefona – soffocati squilli di cellulari dalle tasche. Quasi impossibile, per un migliaio di giornalisti, restare in silenzio per quel minuto chiesto dal cardinale Severino Poletto. Non siamo gente abituata al silenzio. Solo qualcuno di noi nella calca si isola, assorto, e a braccia conserte resta in contemplazione per lunghi minuti. Solo qualcuno, come adesso solo con sé stesso davanti all’ombra di quel corpo, di quel volto.

È un’ombra pallida, il volto, sull’originale, meno netto che nelle immagini ad alta definizione che tutti conosciamo. Occorre sapere e ricordare i racconti evangelici, occorre averli in testa, per ricostruire fra sé quei versi che ci sentiamo ripetere fin da bambini. Bisogna lasciarsi riecheggiare nel cuore la Passione testimoniata da Matteo, o dagli altri evangelisti. Quando è il momento di Pilato. L’ora della sentenza. «...Dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore portarono Gesù nel pretorio e radunarono attorno a lui tutta la coorte. E, spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto; intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a lui, lo schernivano, dicendo: "Salve, re dei Giudei!" E gli sputavano addosso, prendevano la canna e gli percuotevano il capo».

Ecco su quel misterioso telo riemerso dal buio della storia nel quattordicesimo secolo in Francia, su quel telo che non può essere, per le sue caratteristiche fisiche, manufatto e su cui, come ha detto ieri il cardinale Poletto, «la scienza balbetta», i segni della Passione, come in uno specchio: ma in una inversione da negativo fotografico, dove l’ombra è chiara e la luce oscura, e a un primo sguardo superficiale la sagoma sembra evanescente, come appena tracciata da una emanazione di vapori. Occorre fermarsi, e far memoria del Venerdì Santo. Allora ecco prendono forma, sotto a uno sguardo attento, i segni di ciò che subì Gesù Cristo quel giorno. Ecco, sulla fronte, il sangue colato dalla corona di spine. E su una mano, evidente, il buco lasciato da un chiodo, e anche i piedi ugualmente trafitti. Sul lato del dorso ecco le impronte della flagellazione sulle spalle, e sulla nuca, pure, le tracce delle spine di una corona di rovi – a irridere un re martoriato e moribondo. Ecco, sul costato, la macchia larga, come di un colpo di lancia inflitto nel costato. Qui almeno la scienza dice qualcosa di preciso: quel sangue è di cadavere, l’uomo della Sindone era già morto quando fu provocata la ferita – mentre il sangue in corrispondenza dei chiodi e delle spine, è sangue di vivente. La corrispondenza coi Vangeli è assoluta («segno tragico e illuminante della Passione», disse Giovanni Paolo II della Sindone).

E mentre riconosci, e quasi tocchi con lo sguardo questa impressionante analogia, ti si fa dentro come un ulteriore silenzio – attonito, commosso. Sei tu, dunque, sei tu davvero? Come riconoscendo dopo l’eternità un volto tanto a lungo cercato. E poi, immobile ancora lì davanti, ti riecheggia in testa il Vangelo di Giovanni: «Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro al mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro». La grande pesante pietra che Giuseppe d’Arimatea aveva fatto porre davanti alla tomba – come se la storia fosse, con la morte di quell’uomo, finita. E invece, rotolata la pietra, scoperchiata la tomba: là dentro Pietro trovò soltanto i teli.

Il sudario. Questo, che andiamo a contemplare in forse due milioni, in processione, duemila anni dopo? Quando hai ritrovato tutte le corrispondenze e i segni su quel lenzuolo, lo puoi guardare infine nella sua completezza. È l’immagine di un uomo torturato e massacrato, di un uomo straziato dalla violenza, come milioni di uomini e donne e bambini nella storia. È, quel sudario, icona di noi («la carne di Cristo è carne nostra», disse san Leone Magno). Ma, non c’è traccia di corruzione e disfacimento sul quel corpo. Come se l’uomo della Sindone non fosse sceso nella morte, non ne fosse stato preso e catturato giù, nel suo abisso. Esci dal buio del Duomo al sole di aprile, e hai ancora quel volto davanti agli occhi. Come se ancora insistentemente chiedesse a chi lo va a contemplare: e voi, chi dite che io sia?”
(Marina Corradi)

domenica 9 maggio 2010

Il paradiso nel cuore

“E’ il Signore... O mio Dio... che gioia per un cristiano, che, alzandosi dalla mensa eucaristica, se ne va col paradiso nel cuore.”

(S. Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars)

giovedì 6 maggio 2010

Sopra le nuvole

“Commosso in sulle prime da quel vasto spettacolo, e da non so quale inusitata leggerezza dell’aria incantato, come stupefatto ristetti. Guardai: e mi vidi le nuvole sotto i piedi. E meno incredibile mi parve allora la fama dell'Aio e dell'Olimpo, vedendo cogli occhi miei in monte meno famoso ciò che di quelli aveva letto ed udito. Volsi quindi lo sguardo dove il cuore maggiormente mi piega, dal lato d'Italia, e avvegnaché da lungo tratto divise, vicine mi parvero le Alpi stesse nevose, sublimi [...]”
(Francesco Petrarca, Lettere)

sabato 1 maggio 2010

S.Giuseppe lavoratore

“Lavorava a modo suo: con cura e precisione, senza fretta.
Ma ancor prima di ampliare la casetta aveva fatto il secchio per attingere l’acqua dal pozzo. Aveva messo in quel lavoro tutta la sua abilità. [...] Non risparmiò la fatica. Metteva sempre il cuore nella sua attività, questa volta tuttavia il lavoro del secchio divenne un autentico canto d’amore.”
(Jan Dobraczyński, L’ombra del Padre)

“Cleofa lo guardò con attenzione.
- Sei un magnifico artigiano, - disse -, ma penso che saresti più adatto a fare il cantore. Certuni prima lavorano, poi cantano, poi pregano. Ma per te il lavoro stesso è canto e preghiera...”
(Jan Dobraczyński, idem)