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domenica 20 dicembre 2009

Le due sinfonie



“E «appena gli Angeli si furono allontanati per tornare al cielo» (Lc 2,15), ne restò uno in terra con una missione speciale: quella di favorire il sonno del Bambino. Perché non si creda che il piccolo neonato fosse diverso dagli altri. La prima notte, poi...
La prima notte, dopo aver permesso a Maria e Giuseppe di addormentarsi, il piccolo Gesù si mise a frignare. Come dicono gli antichi cantari, «Maria lo cullò, Giuseppe gli parlò», e Lui si addormentò; ma, come gli antichi cantari non dicono, quasi subito si ridestò e riprese a piangere.
A questo punto l’Angelo entrò in azione: da un magico turibolo che si era portato appresso cavò una nube di suoni approntata da tempo con speciale cura. Era o non era il soprintendente generale dei cori angelici (Troni, Dominazioni e Potestà)? In quella piccola nube aveva distillato la quintessenza dei suoni soprannaturali, a noi ignoti ma - per quei pochi santi che hanno avuto il privilegio di udirli - di una bellezza ed armonia indicibili; ad essi aveva poi unito, con sapiente dosaggio, le misteriose melodie e i contrappunti delle sfere celesti in una serie di accordi soffici e solenni che, per non far torto a nessuno, aveva colto da tutte le galassie e tutti gli spazi siderali.
Fu quindi assai stupito quando il Bimbo, dolcemente avvolto da quel magico involucro, continuò a gnaulare come se nulla fosse.
L’Angelo aveva preparato un’arma di riserva, ma non pensava di doverla utilizzare: un’altra nube, molto più eterea, formata da altissimi pensieri, cognizioni eccelse, concetti trascendenti, un tipo di musica, insomma, a noi del tutto sconosciuta e che per la verità neppure lui conosceva troppo bene dato che, essendo un Angelo cantore, non era del tutto esperto in mistica metafisica. Ma nemmeno quest’onda divina ebbe un qualche effetto.
L’Angelo, a questo punto, ebbe il dubbio che qualcuno - forse il Demonio - avesse scambiato il Bimbo nella mangiatoia e che invece del Figlio di Dio vi giacesse un qualunque figlio d’uomo.
Ma ebbe a ricredersi quando, dal soffitto della grotta, cadde una goccia. Non per terra, ma in una scodella di rame che si trovava là per caso. «Dong!» fece la goccia, e il Bimbo tacque. Poi uno spiffero di vento iniziò a sufolare fra le assi sconnesse della porta e, benché all’Angelo quel suono paresse banale, al Bimbo piacque perché agitò le manine in segno di gioia. Allora la natura della notte, che aveva assistito allibita alle performances dell’Angelo, alimentò i mille suoni che ne abitano il silenzio: il fruscio delle foglie di un gelso, un lontanissimo gracidare di rane, i veloci mordenti di alcuni grilli, il basso continuo di un gufo immalinconito, il respiro di Maria e i sospiri di Giuseppe.
Il Bimbo taceva estasiato. Quelle onde sonore, che all’Angelo parevano così povere, lo facevano scendere nella vertigine di un sonno profondo e pacificato. Con le manine strette, gustò per un attimo ancora quei frammenti di silenzio e suono pregustati sin dall’eternità e poi si addormentò.
L’Angelo volò via arrossendo. Si era infatti accorto di non aver capito l’essenziale della nascita del Figlio, che ora era uomo e totalmente uomo, e per il quale la sua lambiccata e preziosissima sinfonia non valeva una nota sola della sinfonia terrestre, tanto desiderata sin dall’inizio dei tempi.”
(Piero Gribaudi, Fiabe della Notte Santa)

domenica 6 dicembre 2009

Il pozzo del filosofo


“Il filosofo camminava a passi stretti, quasi le sue caviglie non osassero distaccarsi più di tanto l’una dall’altra. I tempi in cui, ragazzino, correva a rotta di collo giù per i pendii scavalcando siepi e fossati ad ampie falcate, non erano neppure più un ricordo. Li aveva annientati nella memoria come ogni altra realtà adolescenziale.
La natura - così traboccante di fascino, seduzione ed illusioni - egli l’aveva sterilizzata nella mente per servirsene come alimento per il suo pensiero, cui era avviticchiato come un convolvolo. In tal modo anche il suo corpo si era irrigidito ed ogni suo gesto era divenuto avaro.
Così camminava il filosofo in quella Notte Santa, quando vide un gruppo di pastori che andavano festanti alla grotta e li seguì a distanza. La sua non era curiosità ma inerzia. Già sapeva, il filosofo, dove conduce ogni strada e dove porta ogni passo: al nulla. Ma appunto per questo, a qualunque cosa accadesse egli assisteva; assisteva con quel distacco che egli pensava fosse la sua forza e la conferma del suo pensiero. Tutto è illusione, quaggiù; tuffiamoci dunque in ogni illusione per riemergerne più adamantini nella constatazione del nulla, pensava.
Anche quella volta andò come previsto. C’era una grotta, un bimbo e degli adoratori attratti dall’illusione più crudele per il suo popolo: quella che fosse nato il Messia, il Salvatore. Il filosofo si trattenne per poco sulla scena, tale ne era per lui l’irrealtà e l’assurdo. Si rimise a girovagare nella notte, come era solito fare, per dare un po’ di sollievo ai suoi pensieri.
Guardava il cielo e le sue infinite pupille meditando sulla loro assoluta inutilità, quando un breve passo gli fu fatale. Cadde a testa in giù in un pozzo senza sponde e svenne.
Quando si riebbe, palpandosi la nuca indolenzita, guardò verso l’alto e vide un piccolo cerchio di cielo, quasi una pupilla che lo osservasse assorta. Ebbe allora, fulminea, la percezione della realtà: se dal buco in cui si trovava ora tutto il cielo, per lui, si riduceva a uno spazio così limitato, come poteva aver supposto, quando era in superficie, di vedere altro che uno spazio pur esso limitato?
A volte basta una zuccata per ricondurre sulla retta via.
Il filosofo chiese aiuto. Ma la sua voce era poco più di un esile filo, dal momento che ne aveva fatto un uso molto parco; né le sue braccia avevano più la forza di un tempo, quando si arrampicava sugli alberi per gustarsi qualche fico di frodo. Eppure tutto il suo corpo, ora, reclamava la vita, come un libro a lungo sigillato reclama di essere sfogliato. Adesso che sperimentava nella sua carne quel nulla cui aveva eretto un monumento nel suo spirito, gli pareva un nulla insulso e doloroso, una specie di insetto che in qualche modo lo avesse inglobato in sé. E la recente scoperta che quel nulla altro non era se non una fetta di verità, come il cerchio di stelle sopra di lui non era che una fetta di cielo, e il cielo una fetta di infiniti altri misteri, non consolava più di tanto la sua disperazione. Chi l’avrebbe mai udito e tratto in salvo?
Per fortuna i pozzi non servono solo ai filosofi per rinsavire, ma anche ai comuni mortali per attingere acqua. E così, quando gli cadde in testa il secchio che Giuseppe aveva gettato con foga perché si riempisse celermente, il filosofo cacciò un grido che venne finalmente udito.
E i pastori, nel sentire prima e nel vedere poi qualcuno che scendeva dalle colline a rotta di collo verso la grotta facendo grandi balzi, pensarono: «Questi ragazzi... Quando rinsaviranno mai?».”


(Piero Gribaudi, Fiabe della Notte Santa)