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lunedì 15 febbraio 2010

“Per una verità che non sapevo tradurre in parole”

“Dipingevo, studiavo e meditavo sui miei genitori. Le parole di Jacob Kahn mi ossessionavano: «E’ l’unico modo per giustificare ciò che stai facendo alla vita di tutti». Non capivo cosa intendesse. Mi pareva di non aver niente da giustificare. Non avevo fatto del male a nessuno intenzionalmente. Perché dovevo giustificarmi? Non volevo dipingere per giustificare qualcosa; volevo dipingere perché volevo dipingere. Volevo dipingere allo stesso modo che mio padre voleva lavorare per il Rebbe. Mio padre lavorava per la Torah. Io lavoravo per... per cosa? Come potevo spiegarlo? Per la bellezza? No. Molti quadri che dipingevo non erano belli. Per che cosa, allora? Per una verità che non sapevo tradurre in parole. Per una verità a cui potevo dare vita solo mediante il colore, la linea, la struttura e la forma.”

(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev)

domenica 14 febbraio 2010

Semina

“«[...] Ti dirò cosa mi disse una volta mio padre, possa riposare in pace. I semi devono essere gettati dappertutto. Solo alcuni daranno frutti. Ma non ci sarebbero i frutti dei pochi se non ne fossero stati seminati i molti. [...]»”
(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev)

sabato 30 gennaio 2010

Chi è migliore?

“«Asher».
«Sì, Rebbe».
«Una vita dovrebbe essere vissuta per amore del cielo. Un uomo non è migliore di un altro perché è un medico e l’altro è un calzolaio. Un uomo non è migliore di un altro perché uno è un avvocato e l’altro è un pittore. Una vita la si misura in base a come è vissuta nell’amore del cielo. [...]»”


(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev)

giovedì 28 gennaio 2010

“Così la vita sarebbe stata preziosa...”

“E disegnai anche il modo in cui una volta mio padre aveva guardato un uccello steso su un fianco sul bordo del marciapiedi, vicino a casa nostra. Era Sabato e stavamo tornando dalla sinagoga.
«E’ morto, papà?». Avevo sei anni e non osavo guardarlo.
«Sì», lo sentii dire in tono triste e distante.
«Perché è morto?».
«Tutto ciò che vive deve morire».
«Tutto?».
«Sì».
«Anche tu papà? E mamma?».
«Sì».
«E io?».
«Sì», disse. Poi aggiunse, in yiddish: «Ma che questo accada solo dopo che avrai vissuto una vita lunga e buona, mio Asher».
Non riuscivo a capire. Mi sforzai di guardare l’uccello. Tutto ciò che era vivo un giorno sarebbe stato immobile come quell’uccello?
«Perché?» chiesi.
«E’ così che il Ribbono Shel Olom ha creato il Suo mondo, Asher».
«Perché?».
«Così la vita sarebbe stata preziosa, Asher. Qualcosa che è tuo per sempre, non è mai prezioso».”

(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev)