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venerdì 15 aprile 2011

Un non so che di cosmico

“Il ciclo mestruale ha, come sua prima fase, lo sviluppo del follicolo e in esso della cellula uovo, come per il primo quarto lunare o della luna crescente.

E’ il tempo del risveglio, del rifiorire primaverile della natura orientata verso l’estate, che sarà il tempo della messe, della fruttificazione.
La donna in questa fase viene inondata da una carica, da un tasso sempre più alto di ormoni estrogeni e di androgeni che modificano in senso positivo tutto il suo corpo; come la terra per le piogge primaverili è più ricca, più gonfia di acqua così il corpo e la psiche della donna vengono profondamente rinnovati.

La donna si sente interiormente rifatta, progressivamente sempre più carica di energia dinamica, espansiva, rivolta all’esterno. Fatta padrona di sé si sente capace e pronta a produrre, a costruire nuovi e più profondi progetti di vita di relazione. Essendo più comprensiva, più tollerante, più ricettiva, più materna, più disponibile ai bisogni altrui, sente anche maggiormente il bisogno di incontrarsi con chi gli è opposto, complementare; [...] per costruire insieme una pienezza di essere e di vita.
A ben guardare tutte queste manifestazioni comportamentali della soggettività della donna, evidenziabili come forme tipiche di questa fase del suo ciclo mestruale, sono predisponenti ad un agire intimo, pieno di slanci di oblatività capaci di aprirsi [...] all’evento di una possibile nuova vita nascente.

Quando si è raggiunto questo acme ormonale, lo splendore solare, energetico della femminilità, si compiono le condizioni biologiche favorenti il possibile realizzarsi del miracolo della vita.
[...]

Concluso l’attimo di tempo che l’ovulo concede alla fertilizzazione, meno di un giorno, la donna entra in una successiva fase di transizione, di attesa. Sotto un certo aspetto è opportuno questo stato d’animo di rallentamento di attività, in quanto, qualora si fosse realizzato un concepimento, si tratterebbe di spostare il centro di interessi vitali su questa nuova realtà.
[...]
Ma, come più spesso accade, il miracolo della vita non si compie e il progesterone, ormone protettore della vita, è portato ad arrendersi e trasformarsi in un’azione di regressione e a dar luogo, con un nuovo ciclo mestruale, alla mestruazione.

Questa fase corrisponde a quella della luna calante, del progressivo venir meno della luce per raggiungere l’oscurità o, se si vuole, l’autunno che gradualmente si sfoglia, si contrae per irrigidirsi nel freddo dell’inverno.
La donna si intristisce, abbandona le sue attese, le sue speranze, i suoi progetti, rallenta i suoi ritmi vitali, perde l’aspetto luminoso e ogni slancio verso l’esterno, si fa sempre più introversa, si lascia andare alla ricerca dei suoi bisogni più personali e quanto più si avvicina al mestruo si sente sempre più nervosa, irritabile, intollerante, litigiosa fino a raggiungere lo stato culminante nel mestruo.

La fase del buio, della notte, della stagione sfavorevole corrisponde al momento del flusso mestruale, che segna la fine del mese e l’inizio di quello successivo.
Il tempo del flusso mestruale, della perdita sanguigna, conseguenza dello scollamento della mucosa uterina, viene immaginato e paragonato al pianto dell’utero deluso e amareggiato per il mancato concepimento, che è il fine biologico a cui tende il ciclo mestruale.

Ma appunto perché la natura non ha realizzato il suo intrinseco scopo, preso atto, con dolore, del fallimento avvenuto, ben presto riparte, con rinnovata speranza, per un nuovo tentativo.

Mentre il sangue bagna ancora la donna, come d’inverno sotto la neve, la terra del suo apparato generativo è in profondità ancora viva e già ricca di nuove cellule germoglianti.”

(Gabriele Bonomi - Cesare Gianatti - Rosaria Marelli,
Il segno dei giorni fertili)


martedì 11 maggio 2010

Sei Tu davvero?



“SINDONE
Nel silenzio ti senti chiedere:

«Voi chi dite che io sia?»

Fuori è una giornata di primavera radiosa: un sole chiaro illumina in trasparenza le foglie degli alberi appena nate, color verde acerbo. Dentro il Duomo, è buio. Una penombra fitta accoglie il visitatore ancora frastornato dal primo caldo, e dal vociare della folla in piazza. Una penombra raccolta come un ventre materno, un altro mondo – silenzioso, tanto quanto fuori è rumore.

La sola luce è in fondo, al centro della navata. La sola luce è un grande rettangolo di colore oro pallido. La Sindone, eccola, a pochi metri da te. Dietro allo spesso cristallo a prova di ogni urto, di ogni fiamma, protetta come meglio la tecnologia degli uomini oggi può fare, come il più prezioso dei tesori. Ecco l’orma di quel corpo, e il volto, e le macchie più scure: il sangue. Zittisce per un momento la folla dei giornalisti e fotografi portati per primi in Duomo – zittisce come quando ci si trova davanti a qualcuno, e non a qualcosa. Poi, quasi subito, il mestiere riprende il sopravvento, gli operatori lottano per piazzare i cavalletti delle telecamere, i fotografi alzano sopra la testa le macchine e una raffica di flash illumina di bagliori le navate, come lampi in un temporale. C’è chi parla, chi registra e chi ricorda ai telespettatori che l’ingresso è gratis; chi telefona – soffocati squilli di cellulari dalle tasche. Quasi impossibile, per un migliaio di giornalisti, restare in silenzio per quel minuto chiesto dal cardinale Severino Poletto. Non siamo gente abituata al silenzio. Solo qualcuno di noi nella calca si isola, assorto, e a braccia conserte resta in contemplazione per lunghi minuti. Solo qualcuno, come adesso solo con sé stesso davanti all’ombra di quel corpo, di quel volto.

È un’ombra pallida, il volto, sull’originale, meno netto che nelle immagini ad alta definizione che tutti conosciamo. Occorre sapere e ricordare i racconti evangelici, occorre averli in testa, per ricostruire fra sé quei versi che ci sentiamo ripetere fin da bambini. Bisogna lasciarsi riecheggiare nel cuore la Passione testimoniata da Matteo, o dagli altri evangelisti. Quando è il momento di Pilato. L’ora della sentenza. «...Dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore portarono Gesù nel pretorio e radunarono attorno a lui tutta la coorte. E, spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto; intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra e, inginocchiandosi davanti a lui, lo schernivano, dicendo: "Salve, re dei Giudei!" E gli sputavano addosso, prendevano la canna e gli percuotevano il capo».

Ecco su quel misterioso telo riemerso dal buio della storia nel quattordicesimo secolo in Francia, su quel telo che non può essere, per le sue caratteristiche fisiche, manufatto e su cui, come ha detto ieri il cardinale Poletto, «la scienza balbetta», i segni della Passione, come in uno specchio: ma in una inversione da negativo fotografico, dove l’ombra è chiara e la luce oscura, e a un primo sguardo superficiale la sagoma sembra evanescente, come appena tracciata da una emanazione di vapori. Occorre fermarsi, e far memoria del Venerdì Santo. Allora ecco prendono forma, sotto a uno sguardo attento, i segni di ciò che subì Gesù Cristo quel giorno. Ecco, sulla fronte, il sangue colato dalla corona di spine. E su una mano, evidente, il buco lasciato da un chiodo, e anche i piedi ugualmente trafitti. Sul lato del dorso ecco le impronte della flagellazione sulle spalle, e sulla nuca, pure, le tracce delle spine di una corona di rovi – a irridere un re martoriato e moribondo. Ecco, sul costato, la macchia larga, come di un colpo di lancia inflitto nel costato. Qui almeno la scienza dice qualcosa di preciso: quel sangue è di cadavere, l’uomo della Sindone era già morto quando fu provocata la ferita – mentre il sangue in corrispondenza dei chiodi e delle spine, è sangue di vivente. La corrispondenza coi Vangeli è assoluta («segno tragico e illuminante della Passione», disse Giovanni Paolo II della Sindone).

E mentre riconosci, e quasi tocchi con lo sguardo questa impressionante analogia, ti si fa dentro come un ulteriore silenzio – attonito, commosso. Sei tu, dunque, sei tu davvero? Come riconoscendo dopo l’eternità un volto tanto a lungo cercato. E poi, immobile ancora lì davanti, ti riecheggia in testa il Vangelo di Giovanni: «Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro al mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro». La grande pesante pietra che Giuseppe d’Arimatea aveva fatto porre davanti alla tomba – come se la storia fosse, con la morte di quell’uomo, finita. E invece, rotolata la pietra, scoperchiata la tomba: là dentro Pietro trovò soltanto i teli.

Il sudario. Questo, che andiamo a contemplare in forse due milioni, in processione, duemila anni dopo? Quando hai ritrovato tutte le corrispondenze e i segni su quel lenzuolo, lo puoi guardare infine nella sua completezza. È l’immagine di un uomo torturato e massacrato, di un uomo straziato dalla violenza, come milioni di uomini e donne e bambini nella storia. È, quel sudario, icona di noi («la carne di Cristo è carne nostra», disse san Leone Magno). Ma, non c’è traccia di corruzione e disfacimento sul quel corpo. Come se l’uomo della Sindone non fosse sceso nella morte, non ne fosse stato preso e catturato giù, nel suo abisso. Esci dal buio del Duomo al sole di aprile, e hai ancora quel volto davanti agli occhi. Come se ancora insistentemente chiedesse a chi lo va a contemplare: e voi, chi dite che io sia?”
(Marina Corradi)

venerdì 2 aprile 2010

"Ecce Homo"

Pilato era uscito fuori dal Pretorio e con un gesto della mano rivolto alla folla, fece avanzare Gesù gridando: ‘Ecco l’uomo!’. Infatti Gesù non c’era più, non era più lui. Quel rudere barcollante, che a mala pena si reggeva in piedi, era un cencio a brandelli. Una maschera di sangue e di dolore che i soldati hanno voluto arredare con le insegne della regalità! Quel casco di spine a mo’ di corona ficcato nella testa, quello straccio scarlatto sulle spalle scarnificate dai colpi, quella canna fessa infilata tra le mani legate ai polsi con una catena... tutto per incorniciare un volto tumefatto e livido, un povero corpo maciullato e straziato! [...] Mi fermai a guardarlo: di Gesù non restava più niente, se non la sua dignità maestosa e... i suoi occhi! Quello sguardo mi segue ancora. Erano occhi luminosi. Brillavano. Non per la febbre, non per le lacrime. Guardavano la folla senza rancore, senza desiderio di vendetta, senza atteggiamento di giudizio; guardavano come tante volte hanno guardato i malati, i lebbrosi, i poveri, i disgraziati. C’era in quello sguardo forza e severità, ma anche tanta tristezza, tanto dolore, tanta dolcezza! Erano occhi rivolti alla folla, ma guardavano uno a uno quei poveri sciagurati, entravano in ciascuno di loro come un raggio di luce in lotta con le tenebre più fitte.”

(Ferdinando Rancan, In quella casa c’ero anch’io)

giovedì 22 ottobre 2009

Interiorità e bellezza

GRANDI MOSTRE COMO
CHAGALL, KANDINSKY, MALEVIC
MAESTRI DELL'AVANGUARDIA RUSSA
(Como, Villa Olmo, 4 aprile - 26 luglio 2009)

"Ogni grande epoca ha un suo fine interiore,
dunque una sua bellezza esteriore.
La bellezza consiste nell'esprimere la sua interiorità.
Per questo non bisogna guardare indietro, né valutare
la nuova bellezza con i metri del passato.
Ogni nuova bellezza potrebbe sembrare deforme:
ciò che in essa non ha l'aspetto del passato è brutto. [...]
L'anima cresce, come il corpo, con l'esercizio.
Essa cresce, come il corpo, col movimento.
Il movimento è vita. La vita è movimento.
Ecco, si svela il significato, il senso e lo scopo dell'arte.
Tutta la natura, tutto il mondo, esercitano un'azione sull'anima."

(Vassily Kandinsky)